Diceva Christian Schad che non c’è nulla di più misterioso della
chiarezza. E si potrebbero ripetere le stesse parole, osservando le
fotografie di Chris Broadbent. I suoi lavori hanno una precisione
fiamminga. Nelle sue carte si susseguono, in un equilibrio precario ma
perfetto, i fiori con le loro corolle e i loro petali, le pentole coi
loro manici e le loro attaccaglie, i tessuti coi loro panneggi e le loro
pieghe, le corde coi loro filamenti e i loro intrecci, i libri coi loro
fogli e il loro alfabeto.
C’è nelle sue nature morte - usiamo questo termine pittorico non per
sottrarle al regno della fotografia, ma per riallacciarci
all’espressione equivalente in lingua inglese e tedesca: “vite
silenziose”, come amava dire anche De Chirico - c’è nelle sue nature
morte un insieme di elementi indagati con cura, come se l’artista non si
accontentasse dell’approssimativo, del pressappoco, ma volesse
rappresentare con esattezza la molteplicità delle cose, la complessità
della natura. Perché nulla nell’universo è semplice, nulla è costruito
al risparmio. Raramente Broadbent sceglie forme puramente geometriche
(un vassoio che è solo un rettangolo, una scodella che è solo una
semisfera, una forchetta formata da poche linee come un pentagramma).
Anche quando le componenti della natura morta sono poche, ecco che
l’ondulazione irrequieta di un filo, di uno stelo, o di altro ancora, ci
ricorda che la natura non è un’invenzione della logica. L’esistenza non
è un teorema. Come il cosmo nasce da un caos originario, così l’armonia
della composizione nasce da un disordine iniziale: dalle tante voci e
forme degli oggetti che si conciliano fino ad arrivare a un ordine
finale.
Broadbent infatti raccoglie magistralmente in unità il disegno del
molteplice. Pochi autori sanno giungere come lui alla sintesi attraverso
l’analisi, sanno cioè creare opere in cui tutti gli oggetti, con i loro
numerosi dettagli, si compongono in un equilibrio tanto musicale da
sembrare una cosa sola. L’artista descrive con nitidezza le realtà che
ci mostra e dà luce (in tutti i sensi) alle sue parti più minute, ma
soprattutto le raggruppa, le bilancia, le coordina secondo ordo,
mensura, pondus, pur rispettando la laboriosità del loro profilo,
l’intrico del loro essere, la complicatezza della loro consistenza.
Reductio ad unum e attenzione all’individualità degli elementi:
fra queste due polarità si muove la fotografia di Broadbent. Ma non
solo. Le sue immagini, pur così precise, mantengono intatto il loro
mistero. Sono meditazioni esistenziali: non nel senso psicologico e
autobiografico del termine, perché l’autore non impone alle composizioni
il suo io. Lascia che siano gli oggetti a disporsi naturalmente sulla
scena, come lascia che sia la luce naturale a illuminarli. Non vuole
introdurre nulla di arbitrario nelle sue opere. La sua arte, in questo
senso, ha un parallelo con la pittura oggettiva e stupefatta del
realismo magico, di certa Neue Sachlichkeit, della classicità
moderna
Tuttavia si sente subito che le sue nature morte raccontano qualcosa di
noi. Raccontano, prima di tutto, il tempo che passa, perché, come diceva
il poeta: “Non è il tempo, non è il tempo: siamo noi che passiamo”. C’è
nei suoi lavori qualcosa che è finito o sta per finire: qualcosa che è
rimasto lì dopo una conclusione, un abbandono, un allontanamento, come
se la marea dell’esistenza si fosse ritirata. Tutto è reliquia, nel
senso etimologico del termine: da “relinquere”, lasciare lì. Anche la
luce che avvolge fiori e stoffe non è abbagliante, ma dimessa, discreta,
interiore.
Per questo tutte le sue fotografie hanno qualcosa di spirituale: la
materia, qui, ha a che fare con l’anima e la rivela nel silenzio, in un
tono sommesso e assorto. L’uomo non c’è in queste opere, ma è come se ci
fosse perché gli oggetti parlano di lui, cioè di noi: hanno il nostro
stesso destino, il nostro tempo breve e come noi aspirano all’armonia.
Chris Broadbent, allora, fotografa il mistero delle cose: quell’enigma
che è racchiuso in loro e che solo l’arte sa scoprire.
Elena Pontiggia, Milano Settembre 2021
Christopher Broadbent is photographer whose still life work melts boundaries between photography and painting. Inspired by 17th and 18th century Renaissance paintings of natura morta, Broadbent presents poetic, silent images that investigate moments of intimate and temporal suspension. The flowers, fruits, everyday objects and cooking utensils featured in his pictures, are often transformed into still life compositions that reference a traditional, classic genre of painting, while emphasizing the transient beauty of life.
From Advertising and Commercial work to Intimate Still Lifes.
Although his main subject of photography is still life, Broadbent has had a previously long lasting photographic career that focused on other areas of the medium. Born in 1936 in London, he studied photography and cinematography at the Institut Des Hautes Etudes Cinematographiques in Paris. He then worked in filmography for ten years, shooting documentaries in Rome, before transitioning into the field of photography. Broadbent became widely known with his commercial and advertising work throughout the years, but it was much later in life, during the early 2000s in fact, that he started focusing on a more intimate dimension of the medium: still life.
Floating in Time.
The still life compositions of Christopher Broadbent not only display a studied analytical realism, but also appear to be floating in time, as if suspended. The element of suspension is so dominant, that the viewer is almost waiting for an event to occur for the sake of closure, or to be able to move away from the very image, onto the next. Such feeling of not belonging to a single moment, the in-betweenness creates tension, while extending the idea of time. The stillness of the props and elements within the composition, which, Broadbent meticulously orchestrates, becomes great forces of abstraction.
Synthesis though Analysis
In his photograph, Dry Flowers and Background, for example, the
flower petals do not appear to be falling, but suggest the idea that
they have once fallen, setting aside and slowing down the notion of time
while drawing attention to the composition itself. For one of
Broadbent’s past exhibitions titled Left in Shadows, Elena Pontiggia
once wrote;
“…In fact, Broadbent masterfully brings together the design of the
multiple in unity. Few authors know how to achieve a synthesis through
analysis like him, that is, they know how to create works in which all
the objects, with their numerous details, are composed in such a musical
balance as to seem like a single thing.”
Holden-Luntz, Palm Beach, February 2013
La questione della fotografia pone sin dagli albori della sua storia una complessa articolazione di equivoci. E’ la fotografia una rappresentazione della realtà o solo una sua frazione che con la realtà stessa nulla ha da vedere? Apparentemente lo scatto rappresenterebbe una porzione di questa realtà talmente precisa da sostituirsi alla pittura, anzi da costringere la pittura ad intraprendere strade alternative verso la non realtà. Ma così non è successo, per un motivo poco percepito, e cioè che la pittura non rappresenta l’istante ma la situazione mentre la fotografia è necessariamente istantanea.
L’unico campo nel quale pittura e fotografia affrontano la rappresentazione con una prassi identica è quello della staticità garantita, quello per definizione del perenne non movimento. E qui il non movimento va inteso non solo come quello dell’oggetto fotografato, ma pure quello dell’occhio che lo fotografa: diversa è la natura morta da un paesaggio statico in quanto nel paesaggio è prevista la presenza fisica dell’osservatore mentre per la natura morta vige un gioco retorico che finge di lasciare l’osservatore a sua volta inesistente.
La natura morta è la quintessenza dell’astrazione da parte
dell’osservatore. Nel paesaggio chi lo descrive è necessariamente
inserito; nella natura morta chi la racconta è per definizione esterno.
Qui sta la prima differenza. La seconda è forse ancora più significativa
e riguarda l’oggetto stesso e la sua difficile definizione, quella che
lo porta ad avere nomi diversi nelle diverse lingue: per i tedeschi e
gli inglesi è Stilleben o still life, cioè vita silente, silenziosa
nella propria poetica, per i francesi è nature morte anche se costituita
da elementi non suscettibili di morire, per gli spagnoli è molto più
semplicemente bodegón, pittura realizzata all’interno della bottega,
cioè dello studio. Ma in tutti i casi si tratta di una composizione che
abolisce l’idea di tempo e dove la staticità degli elementi diventa
motivo di sospensione astratta dalla realtà circostante. E’ riflessione
stabile dell’esistere. Ed è al contempo riflesso dell’esistente.
Christopher Broadbent porta queste considerazioni alle loro estreme
conseguenze. Le sue nature morte sono di oggi ma potrebbero essere del
XVII secolo olandese allo stesso modo. Dall’istantanea fotografica si
scivola nel tempo infinito della storia, proprio perché il tempo in
queste immagini è totalmente abolito, come i petali dei fiori che non
stanno cadendo ma sono definitivamente caduti. E la conseguenza ne è
curiosamente paradossale: l’unica fotografia che possa raffigurare la
realtà è quella che rappresenta una realtà artefatta, composta,
inventata. Sicché qui il compito del fotografo non è più solo quello di
scegliere e di scattare, ma diventa quello del comporre e
dell’inventare, di fabbricare il teatrino che diventa il soggetto e non
più l’oggetto dell’immagine.
Come nella stampa antica, il fotografo in questo caso è colui che
delineabat et invenit l’opera finale. L’effetto è fortemente attraente,
in quanto Broadbent così facendo scioglie i limiti fra fotografia e
pittura e lascia i due generi compenetrarsi in una nuova magia, senza
tempo, nella quale gli accumuli di secoli di sensibilità saltano alla
ribalta come il Jack in the Box, il diavoletto dell’immaginario che
compare dal fondo dei sedimenti delle nostre fantasie e delle nostre
memorie.
Philippe Daverio, Milano, Novembre 2013
Nel 1942 Giorgio De Chirico scriveva: «La natura-morta ha, in Inglese
ed in Tedesco, un altro nome, molto più bello e molto più giusto: questo
nome è Still-life e Stilleben: vita silenziosa. Si tratta infatti di una
pittura che rappresenta la vita silen- ziosa degli oggetti, una vita
calma, senza rumore e senza movimento, un’esistenza che si esprime con
il volume, la forma e la plasticità.»1. Con queste parole De Chirico
penetra nella logica strutturale della natura morta e suggerisce allo
spettatore i requisiti sensoriali necessari ad osservarla: silenzio e
immobilità. Molti artisti hanno affrontato il genere della natura morta
come metafora di una condizione umana, quella di uomini costretti a
vivere in un tempo incerto e perituro.
Infatti, a dispetto della incontrollabile volontà che ciascuno ha di
vivere, nessuno è eterno. Spesso ci dimentichiamo di questa evidenza e
tentiamo, in ogni modo e con ogni mezzo, di sottrarci allo scorrere
incessante dell’esistenza. Su queste direttrici si inserisce la
fotografia artistica di Christopher Broadbent che, per la ricerca
tecnica e intellettuale, meticolosa e studiata, è per me come ritrovare
un oggetto prezioso smarrito da tempo. La ritualità delle sue immagini
floreali, il senso di un ranuncolo, di una peonia o di un giacinto,
eleganti e perfetti nella loro caducità, ribadiscono con struggimento la
qualità effimera della felicità umana.
Si può scorgere nelle composizioni di Broadbent il senso
evoluzionistico della natura morta come condizione esistenziale che
riguarda tutti noi: il desiderio che la vita abbia un senso. Queste
composizioni sono una recitazione lenta di oggetti ed elementi, come una
messa in scena, alla maniera degli attori che si distribuiscono sul
palco secondo le decisioni del regista. Mai scelti a caso, i
protagonisti di queste rappre- sentazioni sono ricercati con pazienza
alle fiere di oggetti abbandonati, allontanati dalla quotidianità per
vivere una dimensione metafisica senza tempo. Il gioco del comporre e
del disporre va oltre la bella forma, rivela un rapporto profondo tra
noi e le immagini con cui, non a caso, gli artisti si confrontano da
oltre quattro secoli anche attraverso numerose riflessioni
teoriche.
La diffusione di questo tipo di immagini è stato infatti uno dei
fenomeni più significativi del XVII secolo. Vincenzo Giustiniani
(1564–1637) nel Discorso sulla pittura propone un elenco di temi
pittorici elencati in ordine di importanza a seconda della difficoltà di
esecuzione. Al quinto grado della scala pone il «saper ritrarre i fiori
e altre cose minute, nel che due cose principalmente si richiedono; la
prima, che il pittore sappia di lunga maneggiare i colori, e ch’effetto
fanno, per poter arrivare al disegno vario delle molte posizioni de’
piccoli oggetti, ed alla varietà de’ lumi; e riesce cosa assai difficile
unire queste due circostanze e condizioni a chi non possiede bene questo
modo di dipingere, e sopra a tutto vi si cerca straordinaria
pazienza»
Più piccole delle scene di storia o dei dipinti religiosi, la nature morte sono tra i primi oggetti d’arredo commissionati dai privati, spesso di formato trasportabile. Ai simboli dell’opulenza e del benessere si legano da subito rappresentazio- ni di oggetti semplici, abbandonati e quotidiani. A questi ultimi Broadbent rivolge il suo sguardo con interesse: nature che scompigliano l’ordine e la rassicurante fissità di frutta e fiori. Le simmetrie sono sconvolte, vengono abbandonati i modelli formali: i vasi si aprono e ne escono fiori imperfetti e maturi come in Dry Flowers & Background.
Il fatto che si sia ragionato per secoli su un gruppo di ciotole, di
posate e di stoviglie rivela che, se si sa comporre una manciata di mele
poggiate su un tavolo, se si sa raccontare il senso dell’esistenza in
pochi pezzi disposti con criterio, allora si può raffigurare ogni cosa.
Come Paul Cézanne, che per più di trent’anni ha dipinto nature morte
utilizzando sempre gli stessi oggetti, così Broadbent seleziona pochi
semplici elementi per strutturare il suo linguaggio. Ciò che gli
interessa sono le infinite possibilità combinatorie ottenibili a ogni
variazione. I contrasti di pieno e di vuoto, di grosso e di piccolo, di
chiaro e di scuro devono trovare il giusto equilibrio.
Basta poco perché il racconto cambi completamente di significato. Sono
per lui esempio e confronto le opere di Jean-Baptiste-Siméon Chardin
(1699–1799) Henri-Horace Roland Delaporte (1724–1793) e di Jean-Ètienne
Litotard (1702–1789). Chardin, in particolare, è maestro assoluto nella
disposizione degli oggetti sul piano. Organizza sapientemente vuoti,
pause e silenzi. Ogni sfumatura è essenziale e basta un millimetro in
più o in meno per far crollare tutto l’incanto. Impressi su fondi che
sfumano dal chiaro allo scuro, gli elementi del racconto utilizzati da
Broadbent mostrano, oltre a rimandi fiamminghi in certe gradazioni
tonali, il valore estetico del dettaglio (si osservi la disposizione del
dado in False Flower & Bowl, i nodi delle tovaglie che offrono il
pretesto per un garbato panneggio, come nel caso di Yellow Scarf), oltre
al senso intimo delle cose, anche di quelle che consideriamo banali (ne
è un esempio il pezzo di pane in Bread & False Flowers o il guscio
d’uovo rotto in Egg Cup & Jug). Broadbent sa nobilitare e
trasformare ogni cosa in un mondo rinnovato di mitologie. Anche quando
rappresenta elementi semplici e poveri, come nella fotografia String,
egli sa conferire una certa aria di monumentalità restituendo con
precisione descrittiva il carattere stesso del soggetto.
“Comporre” significa proprio questo: legare le cose fra loro, dare
armonia all’insieme, disporre con cognizione i pezzi nello spazio. Il
termine “compositio” appare per la prima volta nel Quattrocento. Si
legge nel De Pictura di Leon Battista Alberti: «Composizione è quella
ragione di dipignere con la quale le parti delle cose vedute si pongono
insieme».
La composizione è dunque l’arte di saper tenere insieme un intero,
rapporti di forme e di toni che prescindono dalla natura degli oggetti
rappresentati per assumere un valore assoluto nell’immagine, come l’ha
concepita l’autore. Sono anni in cui si parla dell’importanza del
chiaroscuro, della luce, dell’abilità di disegnare di scorcio.
Christopher Broadbent trae da Leonardo la lezione sulla luce: «Quando
tu, disegnatore, vorrai far buono ed utile studio, usa nel tuo disegnare
di fare adagio; e giudicare infra i lumi quali e quanti tengano il primo
grado di chiarezza, e similmente infra le ombre quali sieno quelle che
sono piu scure che le altre, ed in che modo si mischiano insieme, e le
quantità». Broadbent segue il principio della sorgente unica di luce
proveniente dalla finestra del suo studio e posiziona gli oggetti sul
tavolo per studiarne le differenze di toni: «La luce struttura è
l’accenno di un’idea. L’elemento più importante e però la luce. La luce
comanda sulla struttura. L’idea e un condimento da usare con moderazione
se si vuole che l’immagine abbia una vita lunga».
È interessante che proprio nel Seicento e nel Settecento, non la
geometria, non il realismo, ma la distribuzione degli elementi nel
quadro fossero l’oggetto di numerose dissertazioni. Nel corso del tempo
si maneggiano tavole sempre più piccole, fino ad arrivare alla
fotografia osservabile in un unico colpo d’occhio. Con l’avvento delle
nuove tecnologie, inquadrare le immagini - che per secoli è stata una
pratica professionale, basti pensare all’ “inquadratore” di Leonardo
ripreso nella nota stampa di Dürer - è diventata questione di pochi
istanti. Le fotocamere e gli smartphone presentano un reticolato
digitale analogo, che ci consente di stabilire l’altezza dell’orizzonte
e dare quindi un tono preciso all’immagine. Sono cambiati i mezzi, ma
l’idea di fondo rimane la stessa. Capire come comporre, equilibrare i
corpi con spinte e controspinte per trovare un significato, un discorso
coerente tra i soggetti. Non si creda pertanto che la natura morta sia
un genere noioso e desueto. Il panorama contemporaneo della pubblicità -
a cui Broadbent si è brillantemente dedicato per più di cinquant’anni -
non è altro che una sconfinata natura morta. Le fotografie di profumi,
di pasta, di bibite condividono la stessa mania strutturale di Chardin e
fra mille anni un suo quadro e la fotografia di un piatto di
pastasciutta appariranno come variazione sullo stesso tema.
Desideriamo e consumiamo per dimenticarci di dover, un giorno, morire:
appare il contrario del “memento mori”, ma sempre di “vanitas” parliamo.
Con i fiori, «personaggi ribelli che rifiutano di piegarsi ad una
composizione statica», le nature morte di Broadbent si trasformano
lentamente in modo imprevedibile catturando momenti di transizione in
cui il tempo trasforma e consuma la materia, come accade alla nostra
vita. Felice è dunque colui che - come scrive Baudelaire - «plana sulla
vita, e comprende senza sforzo il linguaggio dei fiori e delle cose
mute!»
Giulia Grassi ‘What’s Left’ Cannobio 2021
Ispirato dalla cinematografia di Agnès Varda, della pittura di
Giorgio Morandi, dalla fotografia di Irving Penn e ultima seguace della
poetica francese settecentesca da Chardin a De La Porte, da Liotard a
Oudry - Christopher Broadbent non smette di catturare lo spettatore e di
sorprenderlo con i suoi scatti: dai prime legati al mondo pubblicitario
alle ‘vanitas’ più recenti, dove protagonista è la fugacità
dell’esistenza. Quando nel 1938 Sergej Sergeevič Prokof’ev compose le
musiche per l’Aleksander Nevskij di Sergei Michajlovič Eišenstein, ci
fu qualcuno che ebbe da ridire: la musica autentica deve vivere da sola;
essere al servizio del cinematografo la sminuisce, le da una caratura
inferiore. Anche Christopher Broadbent in cinquant’anni di lavoro ha
sempre messo la fotografia al servizio dei prodotti, del mercato, della
pubblicità. Lo ha fatto per vivere, ma gli è servito anche per
nascondere, per fotografare senza essere catalogato fra gli artisti,
bensì fra gli artigiani e porter così lavorare in tranquillità.
Christopher Broadbent ci regala la magia delle cose e la presenta,
rialzata, al centro della fotografia. Come fa Caravaggio con la sua
‘Canestra di frutta’ che oggi si trova alla Pinacoteca Ambrosiana di
Milano. Le immagine di Broadbent? Una conchiglia madreperlacea con le
costole di un essere umano. Non siamo in qualche modo tutti parenti? Il
bicchiere sghembo in equilibrio con l’acqua color avorio messe di sbieco
a raccontarci la architettura di vetro del calice e quella della stanza
riflessa. Ricorda lo specchio dei coniugi Arnolfini del quadro di Jan
van Eyck di cinquecento anni fa. Seghe con dentatura da squalo, pezzi
di obiettivo, ferraglie e legni; dialogando fra di loro gli oggetti di
tutti giorni. Sono una famiglia che fa compagnia all’uomo. Cade da un
mestolo la salsa gialla olandese sul pollo arrosto. La scritta
pubblicitaria e il marchio Maggi distraggono osservatore e non le
consentono di notare che questo fotogramma è un capolavoro. O meglio,
chi guarda se ne accorge senza accorgersene perché non ci troviamo in
una galleria d’arte, in una mostra, in un museo ma siamo di fronte a
una pagina di giornale. È il famoso a messaggio subliminale. Secondo un
detto scozzese “Il gentiluomo sa suonare la cornamusa ma non lo fa”.
Christopher Broadbent, inglese, dopo l’accademia militare nei Royal
marines, reggimento di eccellenza, capace di operare su ogni terreno,
dall’Artico all’equatore e partito per un interminabile “viaggio nella
luce” luce che e stato ed è tuttora la grande ispiratrice del suo
lavoro. Essere un Royal marine ti da uno stato mentale che conserverai
sempre, ovunque. Come dice il loro motto “Per mare per terram”.
Christopher Broadbent e come il gentiluomo della cornamusa. È un artista
ma non lo dici e, forse, non lo sa. La poetica cinematografica di Agnès
Varda, come quella pittorica di Giorgio Morandi e quella fotografica di
Irving Penn, sono state motivo di ispirazione per Broadbent che,
arrivato a Milano negli anni sessanta, ha saputo trovare subito un
accordo con questa città. Si sono reciprocamente piaciuti. A pochi metri
dal frastuono totale di un traffico automobilistico e di un commercio
sproporzionati per l’urbanistica medievale del luogo, nel silenzio
assoluto, in un cortile interno con giardino, c’è lo studio dove
Broadbent può concentrarsi lavorare con relativa serenità di chi lo fa
su commissione. Ogni volta che Broadbent scatta una fotografia crea un
palcoscenico dove ci sarà uno spettacolo. Gli oggetti da lui scelti
saranno gli attori e quelle che guarderanno, gli spettatori. Lavorare
con le industrie, gli stabilimenti, le aziende, non soltanto
acconsentito a Broadbent di viaggiare per il mondo respirando un’aria di
produttività, ma gli ha anche risparmiato i faticosissimi pellegrinaggi
che i fotografi d’arte suoi colleghi devono per forza intraprendere per
incontrarsi con critici e galleristi. “Col passare degli anni”, ci fa
notare con il suo humor britannico, “sono diventato meno ottimista. Una
volta, i frutti delle mie composizione davano voglia di essere
addentati. Oggi mi piace realizzare delle ‘vanitas’, dei teatrini
allusivi che facevano riflettere sulla caducità della vita e sul motto
dei frati trappisti: ‘memento mori’ (ricordati che deve morire)”. Nel
XVI secolo Faenza riuscì a far parlare la propria maiolica nelle forme e
nel colore, il bianco. La qualità, le ‘nuances’, il mistero di questi
manufatti hanno anticipato l’arte monocroma a noi contemporanea.
Christopher Broadbent, da artigiano quale vuole essere, e più legato,
come ceramisti faentini del cinquecento, alla forma che al contenuto ed
è attraverso le ombreggiature, la separazione delle linee e quello dei
colori chiari dagli scuri che egli comunica il suo messaggio, sia esso
commerciale o privo di vincoli. Concentrandosi sulla forma e non sul
contenuto, e la forma stessa che si fa contenuto. I toni intermedi,
minore, saranno attorno al soggetto, i toni più forte, sia chiare sia
scuri comporranno il soggetto stesso. L’anima degli inglese e basata
sulla cultura greca. La loro mentalità e aperta, larga, disposto a
considerare tutte le idee. Fortunatamente, fino a un certo punto. Senza
gente come i Royal marines molti di noi oggi non esisterebbero e le
altre parlerebbero tedesco. Struttura, luce, idea, diaframma, tempo e
messa a fuoco: sono sei le componente irrinunciabile di una fotografia
di Broadbent. Mai rifiutare un lavoro, costruire la propria competenza
con un impegno costante, con una disciplina in un certo senso militare.
“Le mie foto di cibo non sono altro che l’immagine di coda di una lunga
tradizione di nature morte, di rappresentazioni pittoriche che si
possono realizzare con la matita, la acquerello o, come nel mio caso,
con la macchina fotografica”. Nelle sue foto pubblicitarie c’è sempre
una trovata che spegne la banalità dell’oggetto fotografato. L’arte di
disporre le cose sembra semplice e naturale ma in realtà è una
costruzione meticoloso e studiata. Christopher Broadbent gioca con
l’occhio di chi guarda, ne conosce la psicologia e lo calamite proprio
là dove il committente lo vuole. Persino una confezione di pasta, come
la scatola dei ditalini rigati Barilla, protagonista di una delle sue
più famose campagne pubblicitarie, diventa l’espressione di questa sua
abilità. Spesso c’è qualche cosa in bilico, altre volte un elemento di
contrasto obliquo e prepotente nel bel mezzo dell’immagine. Broadbent
trasforma il prodotto in oggetto elegante, senza rinunciare né al
messaggio commerciale, né a quello estetico. “Attraverso l’inclinazione
prospettica di un piano rispetto all’orizzonte, per esempio si comunica
qual è l’oggetto che fa da da protagonista. Il volume, invece, dipende
dalla capacità di definire in modo netto le parti chiare separandole
delle quelle scure”. La poetica di cui Broadbent è l’ultimo adepto è
nata in Francia nel XVIII secolo grazie a Chardin, De La Porte, Liotard,
Oudry e altri ancora. Questi pittore che rinunciarono al ‘viaggio in
Italia’ e a dipingere quadri mitologiche scoprirono che la metafisica
non abitava in capo al mondo, ma era a portata di mano sulle scrivanie,
nei cesti di frutta e delle cucine e sulle tavole imbandite delle loro
case. Chi sa se questi quadri avrebbero resistito all’aggressione delle
scritture pubblicitarie che non è riuscita, più tardi, a contaminare
l’opera di Broadbent.
Jean Blanchaert - Artedossier No.272, Dic.2010
Il sapiente uso che Christopher Broadbent fa della luce e della tecnica fotografica ci porta a dubitare che ciò che stiamo osservando non sia, effettivamente, un dipinto.
Nato a Londra, Broadbent studia fotografia e cinematografia a Parigi, presso l’Institut Des Hautes Etudes Cinématographiques. E, tuttavia, sceglie l’Italia come propria patria. Si stabilisce a Milano, dove comincia a lavorare nel campo della pubblicità: tra i tanti ingaggi, particolarmente consistenti quelli per Condé Nast e Vogue.
Come nei suoi lavori successivi e personali, anche negli scatti pubblicitari Christopher Broadbent ricerca una particolare bellezza compositiva, valorizzata dallo studio della luce perfetta. E, tuttavia, dagli anni 2000 abbandona il mondo della pubblicità per dedicarsi a un lavoro più intimo e personale, incentrato sul genere della natura morta.
Protagonisti delle sue composizioni sono i soggetti tradizionali della natura morta, consacrati e ripresi dalla pittura seicentesca, e qui reinventati in composizioni virtuose e dettagliate.
Elemento peculiare di queste composizioni è l’effetto prodotto dalla luce. Un’atmosfera rarefatta, irreale, sembra avvolgere l’intera composizione, collocando lo scatto in uno strano limbo: e così le sue immagini non sembrano fotografie, ma quasi opere di una collezione barocca.
L’effetto ottenuto è dovuto alla tecnica scelta da Christopher Broadbent. L’artista, infatti, raramente ricorre a scatti digitali e predilige il banco ottico in legno, con tempi di esposizione molto lunghi.
“Monto un set in mezza giornata con un’idea abbastanza precisa e entro la sera ho un’immagine di base con un equilibrio strutturale. Da qui, senza più pressioni temporali, sono capace di andare avanti per un mese aggiungendo e torcendo stracci e sottraendo briciole e foglie sperando di completare un racconto. Lavoro senza macchina fotografica fino al momento delle riprese. I fiori seguono il loro decorso naturale”.
Ne risulta una fotografia dalla qualità pittorica. I cromatismi sfumano in modo tale da rendere evidente il passaggio da una superficie all’altra, da un materiale all’altro.
Si tratta di un lavoro che richiede molta pazienza, e che permette di avere risultati concreti solo con lo scorrere del tempo. Christopher Broadbent compie quindi una complessa riflessione sul tempo. Non solo riprende il classico tema della caducità, ma rende protagonista anche il tempo di realizzazione dello scatto.
I tempi molto lunghi fanno sì che la sua fotografia, seppure immobile, diventi una rappresentazione dello scorrere del tempo. Sul set, gli oggetti sono in divenire, compiono un percorso, e lentamente si imprimono sulla pellicola. La luce stessa cambia, seppur impercettibilmente, nel tempo dell’esposizione.
Christopher Broadbent si concentra su cose semplici, dimenticate, che, nella penombra creata da un’unica fonte di luce, spesso una finestra, attendono una sistemazione. Sono oggetti che hanno esaurito la loro utilità, e che popolano un ipotetico retrocucina. Da qui, il titolo eloquente di una serie: Quello che resta. Storie di retrocucina.
Gli oggetti immortalati vengono colti frontalmente, al centro della composizione, delineati da un sapiente chiaroscuro. Lo sguardo è fissato su alcuni oggetti ricorrenti, tra cui utensili da cucina in legno o alluminio, ma anche i classici fiori. E i fiori, immortalati più volte nel corso di un mese, mostrano lo scorrere del tempo e il passaggio “da una foto cartolina al memento mori”.
Al bianco e nero, Christopher Broadbent accosta anche scatti a colori. Centrali sono sempre gli oggetti della quotidianità, ritratti in tutto il loro volume e in tutta la loro corporeità. Ma di una quotidianità che sembra quella del passato. Oggetti che non hanno più a che vedere con le cucine della modernità, e che rimangono confinate in un tempo ormai irraggiungibile.
Christopher Broadbent tenta di catturare la transitorietà della bellezza, l’esistenza effimera della realtà concreta. E lo fa attraverso una quotidianità d’altri tempi: gli oggetti e le ambientazioni sembrano trasportarci in un passato ormai concluso. Rivive così un mondo che non è più: quello delle governanti, dei domestici che si occupano di preparare i pranzi nel loro regno, la cucina.
Se da una parte abbiamo i tradizionali fiori, brocche e oggetti quotidiani, sicuramente più insoliti e quasi metafisici sono gli elementi metallici o, certamente, gli stracci annodati. Sono, questi ultimi, oggetti che contribuiscono a creare un’atmosfera sospesa, immobile, ma allo stesso tempo tesa.
A questo proposito, lo stesso Broadbent dichiara che il tempo è volutamente sospeso. “Si vede che qualcosa è successo ma non sappiamo che altro sta per succedere”.
Broadbent ci offre quindi una riflessione sull’esistenza,con
un’attraente fotografia “contaminata” dalla pittura. Un’esistenza sempre
in divenire: non sapremo mai cosa sta per accadere e in cosa si
trasformerà ciò che ora abbiamo davanti agli occhi.
Rebecca Garavaglia ‘Scatti Morti’ 19 MAGGIO 2020
“Le fotografie di oggetti mi annoiano”, ha scritto il filosofo Régis
Debray, “in fotografia solo la natura viva dà emozioni”.
Ben prima di lui, a dire il vero, già alcuni fotografi non ne potevano
più: “Ora ci sembra che basti anche con le nature morte”, scriveva
sarcastico nel 1936 Mario Bellavista nell’Annuario della Società
Fotografica Subalpina di Torino, “la pubblicità ai fruttivendoli e ai
pescivendoli è stata fatta in modo soddisfacente e la gratitudine di
queste nobili categorie di lavoratori costituisce per noi fotografi la
migliore ricompensa a tanti quintali di fatica”.
Spiacenti per entrambi: data per morta e sepolta più volte, la natura
morta è vivissima. Come genere fotografico. Un’araba fenice che risorge
continuamente dalle proprie ceneri in forme nuove. Dalla Tavola
imbandita di Niépce che fu la primissima, nonché tra le prime fotografie
in assoluto; fino alle Instagram delle fettuccine sul tavolo del
ristorante. Giù il cappello, fotografi: la natura morta è forse la
fotografia più longeva di tutte.
La natura morta attraversa il tempo della fotografia. È diacronica, non
anacronistica. Lo dico per quanti andranno a visitare la mostra del
fotografo londinese Christopher Broadbent alla Galleria del Cembalo di
Roma, e potrebbero essere tentati di sbuffare che quelle sue sculture da
tavolino sono fuori tempo massimo. Attenzione, attenzione… Sì, sembrano
fotografie di un secolo fa ispirate a pitture di quattro secoli
fa.
Poi magari le riguardate meglio e cogliete tutti i dettagli inquietanti
o disturbanti che distruggono l’ipotesi del revival. Ma non è una vera e
propria recensione della poetica di Broadbent che vorrei fare, né
addentrarmi nei rimandi simbolici dei suoi oggetti che intuisco ricchi e
complessi. Mi interessa quello che il suo lavoro dice sulla relazione
fra un oggetto efficiente, la fotocamera, e gli oggetti apparentemente
passivi che mette in scena.
Diciamo che la natura morta sembra un po’ in disuso, almeno se la
chiamiamo così. In realtà, se la chiamiamo pubblicità, va
fortissimo.
E Broadbent, dettaglio fondamentale, nella sua lunga carriera
professionale ha fatto soprattutto pubblicità, video e fotografica. Fino
al 2000, quando ha deciso di tornare alla radice iconografica del suo
mestiere.
Ora, siete legittimati a pensare che i suoi lavori siano un po’
ruffiani, seducenti, estetizzanti, rassicuranti, carezzevoli all’occhio.
Forse un tantinino lo sono. Dioende dai gusti personali.
Ma la scelta del genere sicuramente non è scontata. Tra tutti i generi
che la fotografia ha ereditato dall’arte, la natura morta è quello che
più le va scomodo, per eccesso o per difetto.
Da una parte, qualsiasi fotografia è una natura morta, perché lo scatto
dell’otturatore irrigidisce in un fermo-immagine il flusso della storia.
Non per nulla la definizione anglofona è still life, vita immobilizzata
(e su questa strana convergenza di opposti, la nostra morte e
l’anglosassone vita, ci sarebbe da riflettere). Broadbent4 Christopher
Broadbent, Scullery-IX. © Christopher Broadbent, g.c. Dall’altra parte,
qualsiasi oggetto fotografato conserva una interiore vitalità magica,
che gli deriva dall’essere realmente esistito, dall’aver stampato la
propria immagine fisicamente, materialmente sul supporto, come
un’impronta. Una mela dipinta è la Mela; una mela fotografata è quella
mela precisa che il fotografo ha comperato dal fruttivendolo e forse,
dopo la seduta di posa, ha addentato. Basterebbe questo a mettere in
guardia dal rischio di assecondare il parallelismo tra pittura e
fotografia che qualche anno fa percorreva una grande mostra sulla natura
morta a Bologna: dove i peperoni erotici di Edward Weston erano nominati
legittimi eredi delle succulente fruttiere dei pittori Olandesi del
Seicento.
Tutto questo serviva a proclamare la fotografia figlia legittima della
pittura, attraverso la quale è entrata nel tempio dell’Arte, al
principio imitandola ma poi, da brava figliola, percorrendo assieme alla
mamma, anche dopo l’emancipazione, strade parallele e a volte
intersecanti.
Ne siamo così sicuri? Certo, come scrisse l’occhio severo di Paolo
Monti, “Fu quasi fatale che la natura morta fotografica seguisse da
vicino quella pittorica, della cattiva pittura soprattutto”.
Abbiamo epigoni in abbondanza: la frutta matura di Roger Fenton o la
lepre morta di Camille Silvy erano imitazioni fotografiche di pitture ad
olio fatte con i sali d’argento. Festival della composizione, o meglio
dell’arrangiamento, perché la composizione fotografica avviene tutta nel
mirino, mentre l’arrangiamento è la composizione della realtà di fronte
alla lente.
Ma già all’inizio della storia fotografica, i vetri di Talbot nel loro
allineamento rigido e senza profondità, così poco pittorico e poco
pittoresco, segnalavano un rapporto radicalmente diverso fra la
fotografia e gli oggetti. Lo richiede la natura stessa della fotografia.
Che se impone una cornice all’immagine, non è in grado di trattenervi
dentro l’universo del senso.
“La natura morta autenticamente fotografica”, osserva Rudolf Arnheim, ”
costituisce il segmento aperto di un mondo che si prolunga e continua in
ogni direzione, oltre i limiti dell’immagine”. E cosa c’era, oltre i
limiti dell’immagine, nel secolo della fotografia?
L’Ottocento fu il secolo degli oggetti. E non erano più gli stessi
oggetti dei pittori di fruttiere. Erano già gli oggetti industriali, gli
oggetti riproducibili in serie: in questo, parenti della
fotografia.
L’Ottocento delle esposizioni universali è un secolo di cose, di
manufatti, di prodotti. La fotocamera, macchina figlia dell’era delle
macchine, va alla scoperta di un senso nuovo in oggetti nuovi: nella
natura non più morta ma prometeicamente trasformata dalla mano
dell’uomo.
È qui che si scorda i modelli della pittura e ne crea di propri. Nella
Germania degli anni Venti la Neue Sachlichkeit, nuova oggettività,
intraprese la missione di epicizzare l’oggetto industriale, e insieme di
naturalizzarlo: non c’è contraddizione ma alleanza mercificante tra le
forme liberty delle piante di Karl Blossfeld, anello di congiunzione fra
imitazione della natura e design industriale, e la bellezza seriale
degli utensili o delle forme per scarpe di Albert Renger-Patsch.
La ripetizione, il pattern, la bellezza involontaria della funzione: la
natura morta fotografica da allora appartiene pienamente al moderno, non
al barocco. Non c’è più la vanitas severa e minacciosa delle nature
morte classiche, quel monito sulla caducità della vita, quel terribile
memento mori: al contrario c’è l’esaltazione della solidità degli
oggetti che assicurano non solo il nostro benessere materiale ma anche
il nostro godimento estetico.
“Il mondo è bello: questo è il suo motto”, disse aspro Walter Benjamin
di questo stile di estetizzazione della merce, “questo motto smaschera
l’atteggiamento di una fotografia che è capace di montare dentro la
totalità del cosmo un qualche barattolo di conserve, ma che non è in
grado di afferrare nessuno dei contesti umani in cui essa si
presenta”.
Figlia del positivismo, la fotografia non chiede agli oggetti solo di
essere (carezzare l’occhio, mostrare il virtuosismo del pittore che li
ha saputi rendere), ma di fare, cioè di darsi da fare per migliorare la
vita dell’uomo. La pittura chiedeva agli oggetti di essere morali. La
fotografia chiede loro di essere efficienti.
Nelle fotografie di oggetti, le cose scalpitano per agire. La forchetta
fotografata da André Kertész nel 1928 è ansiosa di essere impugnata: la
sua bellezza non è altro che una seduzione. Il colletto sintetico
fotografato da Paul Outerbridge la precede di sei anni. Sono entrambe
fotografie pubblicitarie, commissionate e pagate per vendere quel
prodotto, anche se le stanche storie della fotografia lo ammettono con
vaga esitazione.
Se c’è un genere di natura morta che appartiene tutto e solo alla
fotografia è la réclame commerciale. Certo, lo spot di un colletto di
celluloide non c’entra più nulla con la tradizione della pittura (che
per mettersi al servizio delle merci dovrà reincarnarsi in un’altra
arte, la grafica).
Può non piacere questa scarsa purezza a una ideologia del fotografico
che si illude, e ci illude, che l’aspirazione massima della fotografia
sia abitare un Olimpo di arte disincarnata e disinteressata.
Ma i fotografi, quelli giusti, lo sanno che non è così. Anche quando non
lo ammettono. “Non cercavo niente, le cose mi cercavano”, ha scritto un
grande cercatore di cultura materiale, Walker Evans.
Nella sua idea, la natura morta fotografica raccoglieva la messa in
forma di oggetti, il frutto della volontà di estranei e preesistente
allo scatto.
Natura morta come objet trouvée. La natura morta ideale, per Evans (ma
anche, prima di lui, per Eugène Atget) era insomma la vetrina: che è
messa in forma consapevole ma anonima di oggetti destinati alla
contemplazione ma soprattutto offerti al desiderio e disponibili a
soddisfarlo.
E questo ci dà il primo interessante legame fra natura morta e
pubblicità, che è il suo destino, come vedremo dopo. Sappiamo in realtà
che quell’estraneo spesso era Evans stesso, troppo esteta per resistere
alla tentazione di spostare un vaso su una mensola o di mettere in
diagonale un letto per migliorare la struttura della sua immagine.
Ma forse aveva ragione, è da quasi due secoli ( i due secoli della
fotografia) che gli oggetti ci cercano, imperiosamente, insistentemente.
Lo ha scritto in modo definitivo Jean Baudrillard.
Alla prepotenza estetica dell’‘oggetto industriale ha aperto le porte
dei musei Marcel Duchamp, che almeno si riservò il ruolo del portinaio
che dà le chiavi: poi è stato il festoso liberi-tutti della
Pop-Art.
Occasionalmente, la tentazione di recuperare la natura morta come
memento mori si riaffaccia: ad esempio, nei fiori metaforici di morte e
sesso di Robert Mapplethorpe.
Anche Broadbent, se vogliamo tornare finalmente a lui, sembra pensarla
in termini classici:
«Come per una terzina in poesia, ho adottato una gabbia metrica in uso
da secoli per la natura morta: struttura ortogonale, luce dalla finestra
per un disegno in chiaroscuro, piani prospettici orizzontali marcati per
mettere le cose a portata di mano dell’osservatore».
A Philippe Daverio i suoi still life sembrano
“una composizione che abolisce l’idea di tempo e dove la staticità degli
elementi diventa motivo di sospensione astratta dalla realtà circostante
[… ] E la conseguenza ne è curiosamente paradossale: l’unica fotografia
che possa raffigurare la realtà è quella che rappresenta una realtà
artefatta, composta, inventata”.
Può essere che la fuga di Broadbent dalla pubblicità alla natura morta
sia questo. Ma poi sui suoi tavolini anatomici, accanto alle metaforiche
verdure barocche che ammoniscono lo spettatore alludendo alla loro
prossima putrefazione, spuntano flaconi da detersivo in indistruttibile
pvc capaci di sopravviverci per secoli, barattoli di alluminio con
apertura a strappo, prodotti non riciclabili di un secolo che ingombra
l’ambiente di imperituri segni della nostra civiltà di merce.
E forse la metafora cambia un po’: non ci ammonisce più sull’imminenza
trasfigurante dell’aldilà, ma sull’incombenza soffocante
dell’aldiqua.
Perché la fotografia si è sempre sporcata le mani con la realtà.
Altrimenti è davvero una natura morta.
Michele Smargiassi - Fotocrazia, ‘Quant’è Viva la Natura Morta’, La
Repubblica 27 NOV 2017